Storia dell'AVIS

Tutto iniziò così

In occasione dell’Assemblea nazionale di Bellaria è stato pubblicato un numero speciale di “Avis Sos”, il periodico nazionale. Per l’80°, infatti, oltre ad un libro (sarà disponibile in autunno) e ad un video storico (è stato presentato a Milano lo scorso 27 maggio) Avis
nazionale ha deciso di affidare ai giornalisti di “Dono & Vita” anche la redazione dello “speciale”. Per noi è stato una bella avventura, anche se faticosa. Ringraziamo Pietro Varasi, presidente onorario della “primogenita” Avis comunale di Milano e vera “memoria storica” dell’associazione. Grazie ai preziosissimi archivi che ha voluto tenacemente conservare, e che ci ha permesso di consultare in originale, abbiamo potuto realizzare le “speciale SOS” con la storia dell’Avis fino al 1950. Possiamo, ora, iniziare da questo numero a raccontare anche a tutti gli avisini veneti la lunga, splendida storia della “loro” Avis. E degli uomini e donne che la fecero. Le belle storie (e le sorprese) non mancheranno di certo...

C'era una volta... un medico. Uno di quelli veri. Potrebbe iniziare proprio così la storia dell'Avis. Troppo banale il “C'era una volta?” Proviamo un inizio più storico-cabalistico. 

 

Chi lo sa da dove proviene il detto che il 17 porta sfortuna? Dai romani. Anagrammando infatti i “numeri” che formavano il numero 17 (XVII) spuntava fuori, tradotto in lettere, un verbo non esattamente augurale: VIXI. Non serve certo tradurre per capire quanto, per i superstiziossimi abitanti dell'Urbe, il 17 fosse cifra da evitare come la peste. Ma che c'entra il 17 con l'Avis? Tantissimo, tanto che da quel numero si può ben dire che sia partita una lunga, splendida storia che - a ben vedere - dovrebbe proprio sfatare una volta per tutte l'antica credenza sul “povero” 17. Quanti milioni di ammalati, da otto decenni a questa parte in Italia, invece del “vixi” hanno potuto dire tutto il contrario grazie a quei primi 17 pionieri? Ma andiamo con ordine.

 

Questa dev'essere una breve storia di come l'Avis è nata ed è cresciuta nei suoi primi decenni. Con lo spirito che, oggi, anima più di un milione  e 100mila cittadini di ogni età, sesso, razza, religione e appartenza partitico-politica che ne fanno parte. Non saremo certo esaustivi, sarebbe impossibile, ma ci soffermeremo su alcune “storie” e dati significativi. La leggenda racconta che correva l'anno 1926 e che fosse la vigilia di Natale.

 

A Milano un giovane medico, 31 anni, fu chiamato al capezzale di una partoriente. Era un parto difficile, una grossa emorragia era in corso. Vittorio Formentano, fiorentino, figlio di magistrato, capì che senza una trasfusione di sangue avrebbe potuto salvare solo la nascitura. Era un ematologo, uno dei pochi, all’epoca. Uno studio privato, come tutta la medicina del tempo, in Via Moscova 18. Donatori quella notte? Macché! Esistevano solo datori a pagamento, profumato pagamento.

 

Il “cachet” si aggirava intorno alle 8-900 lire dell'epoca. Mica poco, se con uno stipendio di sole “1000 lire al mese” ci si considerava già ricchi. A quell'ora, poi… e con quali soldi? Quelli di una modesta famiglia di operai? Una donna morì. Una bimba nacque. Assieme a quella bimba nacque un'idea. O, meglio, un ideale. Ed un uomo, un medico di quelli “veri”, ne ebbe la vita segnata. Assieme a lui, in seguito, molti altri. Pochi mesi dopo mesi dopo (c’è chi dice a metà maggio, Formentano in un verbale afferma che fu a febbraio) dal  “Secolo Sera” viene pubblicato un annuncio economico a pagamento: si cercano “donatori volontari di sangue”. Eresia? Utopia? Se ne presentano in 17, di “eretici”, in Via Moscova: una donna e 16 uomini. Era il 27 maggio del 1927,

dicono alcune pubblicazioni, mentre da un verbale del 27 marzo del ‘33 risulta fosse il 16 febbraio. Ma che importa?

 

In ogni caso in quel 1927, proprio il 20 maggio, Charles Lindberg avrebbe sorvolato per la prima volta l'Atlantico appena da una settimana. Pochi mesi dopo Sacco e Vanzetti sarebbero stati ingiustamente condannati a morte negli USA.

 

Non erano i primi no, in Italia, quei 17 a formare un gruppo di donatori volontari. Per lunghi anni - in Avis - sia Ancona, sia Treviso hanno bonariamente disputato a Milano la primogenitura. Marchigiani e veneti fanno infatti risalire al 1926 la formazione di un gruppo
organizzato di donatori volontari e “gratuiti”. Ma il concetto di Associazione Volontari Italiani del Sangue (Avis), nacque a Milano. E su questo, ormai, nessuno discute più da tempo. Il piccolo sodalizio milanese, prima di darsi uno statuto (ci vorranno un paio anni) si dota di un vero e proprio “codice d'onore”. Il motto è “Charitas Usque ad Sanguinem”. È pubblicato a pagina 5 ed è tanto attuale che sembra scritto ieri. Per tutti. L'anno dopo Vittorio Formentano - che nella sua “missione” è affiancato dal fratello Eugenio - da quel grande comunicatore ante litteram che si era già dimostrato, tempesta i giornali di Milano di richieste di “propaganda”. Qualche trafiletto, e pure qualcosa in più, arriva. E pure qualche stilettata dal “Corriere”. S'impara, comunque, a “sfruttare” la notizia
ogni qual volta che un donatore offre il suo braccio gratuitamente.

 

A giudicare dall'incipit di certi articoli “L'Associazione comunica…” , è evidente che c'era anche da subito un efficiente “ufficio stampa”. Formentano fonda nel 1928 anche il primo “giornale” che si occupa di ematologia. È un semplice “bollettino”, certo, ma intanto fa circolare le sue idee fra i medici.

 

 

Nel 1929 - anno VIII dell'era fascista - arriva il primo, vero, Statuto associativo. Curioso è notare come fra gli “scopi”, il principale sia: “...propagandare specialmente tra le masse operaie il concetto prettamente umanitario, sociale e patriottico della offerta volontaria del proprio sangue”.

 

L'Avis nasceva forse socialista, sposando la lotta di classe nonostante il Regime imperante? Forse solo un po', se “lotta di classe” era difendere gli ammalati più poveri. La verità è che, in una città industriale come Milano, la classe chi più sentiva il peso di una “trasfusione da comprare”, erano proprio quella dei proletari delle grandi fabbriche. Ed era proprio per questo, probabilmente, che gli operai avvertivano molto più di chi era “ricco” lo spirito di solidarietà verso propri simili. Non è un caso se la gran massa dei soci nei primi anni - ma anche nei decenni successivi - proverrà dalla classe operaia nelle grandi città come Milano e Torino (1930), da quella contadina nelle campagne lombarde, venete o emilianoromagnole.

 

E non è neppure un caso se, quasi subito, cominciarono a spuntare “robusti” gruppi aziendali. Fra il '27 e l'inizio degli anni '30, le associazioni di volontari del sangue fiorirono comunque un po' dappertutto: Torino, Bergamo, Pavia, Brescia, Napoli, Roma e via italianeggiando anche nei centri più piccoli. Il 24 aprile del 1932 tutte, o quasi, le associazioni di donatori del Paese si ritrovano a Milano in quella che si può ben definire la prima Assemblea Nazionale. Statuto unico per tutti, sul modello della primogenita milanese, ed lo spirito di solidarietà si diffonde sempre più a macchia d'olio. Ma, si sa, tante persone con un unico ideale - pur apartitico - possono essere “pericolose” se non adeguatamente regolamentate e controllate. Già, a Milano, era giunta, nel 1931, qualche pesante pressione per uniformarsi al “vento” dominante.

 

Con un debito di oltre seimila lire, l'Avis naviga in cattive acque. Lotterie di beneficenza e “the danzanti”, aiutano, ma non bastano. Dall'autorità statale - nella persona del vice podestà - arriva la proposta di ripianare tutti i debiti con una grossa sovvenzione purché alla sigla “Avis” s'aggiunga la dicitura “organizzazione fascista”. I donatori, tutti, vengono interpellati. I donatori, tutti, rispondono picche. Anche coloro che sono iscritti o simpatizzano per il partito. L'Avis è Avis, insomma; il partito (o dopo il 1945 i “partiti”) sono altra cosa. Formentano, che oltre che come medico pure a “public relation” ci sapeva fare parecchio, oltre che risultati scientifici sostanziali e riconosciuti in tutta Europa, inanella risultati di “immagine” di tutto rispetto. Il che rafforza il prestigio dell'Associazione, difendendone così, per quanto e fino a quando è possibile l'autonomia.

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